Un respiro trattenuto

Pubblicato su Confidenze N. 47 Novembre 2016

Mi sta molto a cuore questa storia.
Quando l’ho scritta cinque anni fa, mio marito aveva perso il lavoro da qualche mese e io quotidianamente leggevo nel suo sguardo tutto lo sconforto che la disoccupazione può causare a un uomo che sente su di sé la responsabilità di una famiglia. Più volta guardando a ritroso, ho pensato che la sua malattia avesse avuto inizio da lì, da quel grande senso di fallimento e di impotenza che lo aveva assalito in quei giorni. Ho comunque voluto raccontare un lieto fine, perché, come poi ho duramente imparato, alla fine è solo l’amore che vince, forte, potente, inarrestabile.  

“Fra’ mi hai stirato la camicia azzurra?”

“No Enrico non ho fatto in tempo mettine un’altra che fa lo stesso dai”.

“Sai che ci tengo a trovarla pronta il lunedì”.

Franca sbuffa scocciata, d’altra parte devo fare la mia parte fino in fondo, altrimenti potrebbe intuire qualcosa. Quando lavoravo in azienda, avevo una camicia specifica per ogni giorno della settimana perché sono fatto così, mi è sempre piaciuto essere preciso e anche se adesso le cose sono cambiate, non voglio insospettire mia moglie.

Così fingo di essere contrariato e indosso la camicia bianca, anche se dentro di me mi viene quasi da ridere al pensiero che per il posto in cui devo andare, andrebbe forse meglio una tuta. Sì, perché da quasi tre mesi a lavorare non ci vado più. Mi hanno licenziato senza alcun preavviso e mi sono ritrovato disoccupato dal mattino alla sera.

Disoccupato.

Quando leggevo sui giornali questa parola dalla comoda scrivania del mio ufficio mi sentivo tranquillo e sicuro, con il mio posto fisso, il mio lauto stipendio con il quale mantenevo comodamente la mia famiglia.

Ma mi sbagliavo, perché alla fine il posto l’ho perso pure io. E il mondo mi è caduto addosso .

Provo a spiegarvi come ci si sente a ritrovarsi disoccupati.

E’ come perdere il proprio posto nel mondo, non sapere più da che parte andare, svegliarsi la mattina e domandarsi se arriverà lo stesso la sera, se la giornata passerà, nonostante tutto. E’ come un respiro trattenuto, che non riesci a prendere perché ti sembra di avere perso il diritto di farlo.

Ho 57 anni e più nessuno si prenderà la briga di offrirmi un lavoro. E se credete che questo sia il mio pensiero più nero, vi sbagliate, perché c’è di peggio. Il peggio è che non ho ancora avuto il coraggio di dirlo a mia moglie e ai miei figli.

Perciò sono tre mesi che ogni mattina mi alzo con il cuore così pesante che pare mi esploda nel petto, mi vesto, mi rado e metto il dopobarba, bacio mia moglie, esco di casa e vado al parco. I primi giorni camminavo a caso senza una meta, poi mia moglie mi ha chiesto come mai consumavo così tanto la suola delle scarpe, che non era mai successo.

Ho dovuto escogitare un’ alternativa e così sono andato al parco. Ogni mattina compro il giornale, lo leggo da cima a fondo, poi apro il tablet rispondo alle inserzioni inutili alle quali nessuno risponderà mai, e guardo la gente.

Osservare la vita quotidiana delle persone mi ha fatto capire tante cose.

Ad esempio che prima di perdere il posto di lavoro, ne facevo parte anch’io, ma non ho mai apprezzato il vero valore. Anzi, mi lamentavo del mio lavoro sempre uguale, della vita identica a se stessa ogni santo giorno.

Pensavo che avrei voluto mollare tutto, prendere e volare in Australia, per cominciare una nuova vita.

Adesso non so cosa darei per riavere almeno una parvenza della mia vita di sempre. Non sono uno studente, non sono un pensionato, non sono nessuno, me ne sto qui sospeso nel tempo ad aspettare che le cose cambino, ma le cose non cambiano mai.

E siccome ha cominciato a fare freddo, nel pomeriggio mi sposto dentro un piccolo bar, trovo un tavolino in un angolo prendo un caffè e rimango lì, fino all’ora di fare ritorno a casa. Lo so che potrei occuparmi della spesa e di accompagnare i figli ai loro impegni, ma il pensiero che i genitori dei loro amici o i vicini di casa mi vedano e mi domandino come mai non sono in ufficio, mi fa impazzire.

Suona il cellulare e sussulto. Sono le tre del pomeriggio ed è mia moglie. Strano, non si sognerebbe mai di disturbarmi in ufficio, non vorrei che fosse successo qualcosa.

“Si?” dico con l’aria di chi ha poco tempo.

“Enrico dove sei?”

Trattengo il fiato per un momento.

“In ufficio dove vuoi che sia? C’è qualche problema?”

“No, no niente solo mi domandavo se puoi uscire un po’ prima stasera, perché i figli non ci sono e ho bisogno di parlarti”.

“Sapessi come lo vorrei anch’io “sono tentato di rispondere.

“Vedo cosa riesco a fare dai, adesso ti lascio ho un appuntamento”.

Non riesco a immaginare di cosa voglia parlarmi, spero che non le sia venuto qualche dubbio. Lo so che è sbagliato mentirle, ma mi manca il coraggio.

Io sono sempre stato il punto di riferimento della mia famiglia, con il mio lavoro ho permesso loro di non rinunciare a niente, di vivere nel benessere e nella prosperità e di questo sono sempre stato fiero. La mia famiglia d’origine era poverissima, abbiamo sempre fatto tanta fatica a tirare avanti e io mi ero ripromesso, che se fossi riuscito a costruire una famiglia, avrei fatto qualunque cosa per renderli felici. Come faccio a dirgli che sono tre mesi che non riesco più ad adempiere a questo dovere? Che mi sento fallito? Come si può amare un uomo che non è stato in grado di conservare un posto di lavoro?

Alle cinque saluto il barista che mi guarda ogni giorno sempre più perplesso e faccio ritorno a casa .

Franca mi sta aspettando, è pallida e agitata.

“Uei tutto bene?”

“Cosa aspettavi a dirmelo?”

Per un istante è come se il sangue defluisse completamente dal mio corpo.

“Ah sei impallidito, allora è vero, io continuavo a ripetermi che non era possibile, che c’era una spiegazione, ma avevo capito che qualcosa non andava, tu sei diverso da qualche mese, non sei più lo stesso e oggi ne ho avuto la conferma”.

Lei è un fiume in piena e io mi sto dando dell’idiota . Come ho potuto pensare in questi mesi che non si accorgesse di nulla? Lo so che sono diverso, non ho voglia di parlare, sono evasivo, ma credevo di farcela.

“Franca non ce l’ho fatta mi dispiace, avevo paura di deluderti”.

“Deludermi? La tua unica preoccupazione era quella di deludermi? Tu mi spezzi il cuore, io credevo di essere importante per te. Da quanto tempo va avanti questa storia?”

“Sono tre mesi, ma è proprio perché ti amo tanto che non trovavo il coraggio”.

“Ah mi ami però hai trovato un’altra donna perché io non ti basto più? Più giovane magari? Mi fai schifo!”

L’impatto di queste parole è talmente violento che faccio un passo indietro.

“Un’altra? Un’altra cosa? Franca ma di che diamine stai parlando?”

Ha gli occhi talmente gonfi di lacrime che fatico a vederli.

“Ho chiamato in ufficio stamattina perché non rispondevi al cellulare e mi hanno risposto che sono mesi che non ti presenti al lavoro e non sanno dove sei finito.

Un pensiero veloce mi attraversa la mente, non hanno nemmeno avuto il coraggio di dire che mi hanno licenziato.

Poi mi dico cosa me ne frega, ho perso un posto di lavoro e posso provare a sopravvivere, ma se dovessi perdere mia moglie allora sì che non avrei più la forza di andare avanti. Non so nemmeno da che parte cominciare, non trovo le parole, i pensieri nella mia testa sono talmente aggrovigliati che ho perso il filo. Da dove comincio?

E poi, prima che trovi il tempo di riflettere, il mio corpo risponde per me. Scoppio in lacrime come un bambino.

Non ricordo nemmeno quando è stata l’ultima volta che ho pianto, forse al funerale di mio padre, ma queste sono lacrime diverse, di sollievo e di liberazione perché finalmente ho chiuso con le menzogne. Mentre racconto tutto mi pare piano piano di ritornare a respirare.

Franca, si avvicina e mi abbraccia.

“Abbiamo sempre condiviso tutto”, mi dice “come hai potuto tenerti dentro questo peso? Come hai potuto pensare che non ti avrei capito e sostenuto?”

Poi mi rendo conto che era il pensiero di mentire che rendeva insopportabile il vivere.

“Ce la faremo vedrai, ne abbiamo passate tante, non  sarà questo a metterci in ginocchio. In qualche modo ce la faremo”.

Certi giorni trattengo ancora il respiro quando penso che sono disoccupato, poi guardo la mia famiglia, penso a ciò che abbiamo costruito Franca e io in questi anni, e ne vado fiero e lentamente e faticosamente lo lascio andare.

Voglio credere che ritroverò anch’io prima o poi il mio posto nel mondo.

9 pensieri su “Un respiro trattenuto

  1. Silvia

    Ogni volta sai toccare corde profonde e dolorose ma con quel garbo con quella delicatezza che porta sempre a guardare che della medaglia ci sono sempre due facce.
    Sta a noi fare quel gesto semplice ma spesso faticoso. Girarla.
    Ti abbraccio Silvia

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  2. Ci ho dovuto pensare un po’ prima di commentare e ci sarebbe da scrivere un post lunghissimo su questo argomento.
    Posso però però dirti che per me non è perdere se stessi, non nel lungo periodo almeno. Se all’inizio ci si sente delusi, falliti, messi da parte. Poi subentra la consapevolezza che tutto accade per una ragione, sta a noi saperla cogliere. Saper trasformare il fallimento in possibilità. Ovviamente, non per tutti è così. Posso dirti che qualche hanno fa mi sono fatta venire una mezza paresi perché avevo perso il lavoro, e se pur richiamata dopo pochissimi mesi dalla stessa azienda ci ho messo anni a guarire quella ferita. Quindi più che dire che perdere il lavoro ci fa perdere noi stessi, io penso che siano le nostre emozioni e sopratutto le reazioni di fronte ad un evento traumatico a portare delle conseguenze.

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  3. ciao. il tuo racconto l’ho letto quasi commossa. Ho anche visto una votta un film su di un tema simile, il marito che perde il lavoro e che non aveva il coraggio di dirlo alla moglie che amava tanto. E’ un dramma, profondo, perché si teme l’impoverimento economico oltre alla posizione sociale. Ma é anche una possibilità. Tutti nella vita subiscono un colpo dura dal destino. Ma il colpo duro é solo la possibilità di incominciare daccapo in un modo diverso in modo da produrre di più che con il lavoro di prima. Ma bisogna capirle queste cose e sperimentarle. Grazie del tuo racconto ciao

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  4. Ho perso il lavoro quando è nato il mio bimbo più piccolo. Fortunatamente non per la maternità ma per una serie di circostanze avverse. All’inizio sono stata strafelice di potermi occupare del mio bimbo a tempo pieno e non affidarlo ad altri per delle ore fin dai quattro mesi. Poi ho conosciuto il senso di fallimento, lo smarrimento, la depressione. Sono passati anni e sto cercando nuove strade. Grazie per questo racconto.

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  5. Complimenti, un bellissimo racconto! Oggi più che mai attuale, io ne so pure qualcosa perché la disoccupazione la vivo da un bel po’ di tempo sulla mia pelle ma di sicuro non mi arrendo, anzi. Ho deciso di fare da me, se gli altri non me lo danno un lavoro me lo creo da me, semplicemente!

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