Pubblicato su Confidenze n.25 Giugno 2018

Diversi anni fa partecipai al funerale del figlio quindicenne di una mia cara amica, morto in un incidente stradale. Ricordo di aver pensato all’inizio della celebrazione, che avrei proprio voluto ascoltare l’omelia del sacerdote per scoprire cosa si sarebbe inventato per rendere se non sensato almeno sopportabile quel dolore. Rimasi stupita quando lui semplicemente disse che ciascuno di noi nasce con il compito di portare a termine delle missioni, e soltanto nel momento in cui adempiamo a questo compito, siamo pronti per lasciare questa vita.
Per alcuni è necessario molto tempo, altri invece, necessitano di pochi anni.
Queste parole mi tornano alla mente con insistenza in questi giorni in cui mi ritrovo a fare visita al mio papà che da tre mesi si trova in una casa di riposo. Ha 87 anni e la sua vita è stata una lunga strada percorsa con umiltà, pazienza, e impegno. Lui e la mia mamma, mancata sei anni fa, si sono sposati nel Giugno del 1956, e sono rimasti insieme per oltre cinquant’anni, nella buona e anche nella difficile sorte che talvolta li ha profondamente toccati.
Il lavoro è stato un compagno fedele per tutta la sua vita. Prima operaio metalmeccanico per quarant’anni, poi giardiniere e tuttofare per famiglie benestanti, ha sempre sentito fortissimo il senso del dovere nei confronti della sua numerosa famiglia.
Eppure nonostante il lavoro, per noi cinque figli e soprattutto per i suoi adorati undici nipoti, c’è sempre stato. Con lui hanno imparato a pedalare, a pescare, a raccogliere insalata e zucchine, a giocare a scopa e scala 40, a tifare Milan, a smettere di piangere per un ginocchio sbucciato o la sgridata di un genitore. Li ha accompagnati infinite volte a scuole materne, elementari, medie, sostando con pazienza fuori dalla stazione quando si annunciava il ritardo di qualche treno, o aspettando la fine di un allenamento o di una festicciola tra compagni. Quando è rimasto solo, si è rimboccato le maniche e ha continuato la sua vita, occupandosi della casa, del cimitero, del suo orto, e prendendosi cura, come poteva, ancora una volta di tutti noi. Ci ha pensato la malattia a interrompere il suo continuo andirivieni, a raccontargli che quando arriva quel momento in cui tutto diventa troppo, è tempo di fermarsi.
“A casa vostra non vengo ad abitare, avete le vostre famiglie, i vostri impegni i vostri orari, sarei solo di disturbo”.
Ecco la grande decisione: vado a vivere in casa di riposo.
E la casa di riposo, in una fredda giornata di Gennaio, ha spalancato le sue porte. Non ce l’hai raccontato, ma possiamo immaginare la grande fatica di chiudere a chiave la porta della tua amata casa per l’ultima volta, sapendo che non vi avresti più fatto ritorno, di regalare i due pappagallini che ti tenevano compagnia, e i quattro pesci rossi vinti a una pesca di beneficenza.
Mentre scendevi le scale con la valigia in mano, hai impedito al tuo sguardo di andare oltre la finestra per non vedere il tuo orto, compagno fedele di tante giornate. Chi avrebbe pulito le scale del condomino al posto tuo? E raccolto le cartacce lasciate dai bambini? Chi avrebbe potato le azalee che tu stesso avevi piantato nel giardino condominiale? E chi avrebbe spalato la neve la mattina presto prima che tutti si alzassero per andare a lavorare? Com’è possibile che il giorno prima ci si senta così indispensabili, e il giorno dopo il mondo prosegua il suo cammino anche senza il nostro contributo?
Era pesante quel cuore la mattina della tua partenza, e io sapevo che ciò che ti spaventava più di tutto, erano i lunghi giorni improvvisamente svuotati del loro contenuto che ti attendevano in fila indiana, uno uguale all’altro.
Cercavamo di tenerti su di morale, di raccontarti aneddoti divertenti, di aggiornarti su quanto accadeva fuori da quelle mura, ti portavamo nelle nostre case ogni qualvolta si poteva, per non spezzare quel filo sottile che ti teneva legato alla vita quotidiana, il personale si è subito dimostrato gentile e disponibile, l’ambiente accogliente e ospitale, anche se pur sempre di casa di riposo di trattava.
Ma il tempo, trascorreva comunque lento e faticava ad arrivare sera ogni giorno, perché alla fine che annienta un uomo più della malattia, è la sensazione di essere diventato inutile.
Poi un pomeriggio, sono venuta trovarti e ti ho visto al tavolo con un altro ospite mentre ti sforzavi di comprendere le complicate regole del gioco del burraco. Ricordo che il cuore mi si è sciolto di tenerezza, perché ancora una volta eri alla ostinata ricerca di un modo per riempire le tue giornate e mettevi a frutto la tua straordinaria capacità di adattamento che ci hai così bene insegnato. Due giorni dopo, a quel tavolo stavi seduto da giocatore.
Piano piano ti sei riempito le giornate con tutte le attività che la casa organizzava, e ti sei fatto degli amici. Hai conosciuto il Lino che di anni ne ha 90 e ed è quasi completamente cieco e sei diventato la sua guida, il suo sostegno, il suo amico. Sei tu che chiami gli infermieri quando lo vedi in difficoltà, sei tu che gli proponi le mattinate in palestra per distrarlo un po’, quando giocate a tombola tieni d’occhio le sue cartelle e se lo vedi sonnecchiare troppo a lungo, lo svegli e te lo porti a fare un giretto in giardino. E al Mauro tuo omonimo e compagno di stanza, che non riesce più a comunicare con la parola, ti sorprendi a scambiare un saluto, pur non essendo del tutto sicuro che ti comprenda.
La vita ti ha proposto tanti ruoli, sei stato figlio, fratello, marito, padre, nonno, ma poche volte amico.
E allora mi tornano alla mente le parole di quel prete a proposito delle missioni che siamo chiamati a compiere. Forse ti mancava questa, l’ultima missione, e ancora una volta, non ti tiri indietro.
Mi sorprendo a guardarti mentre ti adoperi, sfidando il tuo corpo che ogni giorno ti tradisce, sguainando il tuo spirito come una spada e sono così fiera di te, papà, della tua forza e del tuo coraggio che ti hanno condotto fino qui, dove non avresti mai pensato di arrivare, in questa piccola casa di riposo.
E’ fatica vivere giorno dopo giorno, un passo dopo l’altro senza perdere la testa, senza perdere la strada, senza girare lo sguardo altrove o voltandosi continuamente indietro a vedere ciò che non è stato, lasciandosi sopraffare dai rimpianti.
Nessuno di noi conosce l’ultima missione, ogni volta che ne intraprendiamo una nuova, non ci è dato di sapere se sarà l’ultima e nemmeno quale sarà la sua durata, ma apprestandoci a viverla a testa alta, con impegno e tenacia, diamo un senso splendido alla nostra vita.“
La vita è come un palcoscenico” scriveva la Fallaci “devi attraversarlo e per farlo ci sono tanti modi. Puoi attraversarlo più o meno alla svelta, non conta il tempo che ci metti, conta il modo in cui lo attraversi, è importante attraversarlo bene, e se nel farlo commetti qualche errore, non importa, è sempre meglio del nulla”.
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