pubblicato su Confidenze N. 40 ottobre 2016
Qualcuno ha detto che si può sopportare qualsiasi cosa se la si racconta.
Ho una vita agiata, ho ereditato con mio fratello l’azienda paterna, che insieme abbiamo gestito con successo fino a due settimane fa, quando un incidente stradale lo ha ucciso sul colpo strappandolo alla sua vita meravigliosa.
Carlo era il mio unico fratello, maggiore di cinque anni. E’ stato il mio eroe fin da bambino, a lui devo tutto ciò che sono diventato.
Quando mio padre ha deciso di lasciare l’azienda, voleva tagliarmi fuori perché Carlo era il fratello perfetto, mentre io me ne ero andato da casa già da tempo. Mi sono sempre divertito, niente legami, qualche lavoro qua e là giusto per mantenermi, ma niente responsabilità. Carlo è venuto a prendermi e mi ha riportato a casa. O insieme o niente.
Solo anni dopo ho capito che affidandomi delle responsabilità, come aveva sempre fatto fin da quando eravamo piccoli, mi ha offerto la possibilità di diventare un uomo.
In pochi anni abbiamo raddoppiato il fatturato dell’azienda e avevamo in progetto ancora tanti investimenti, poi l’incidente e da quel momento, una discesa di dolore inarrestabile, una rabbia che non mi permette di andare avanti.
Senza di lui sperimento per la prima volta il peso della solitudine, la fatica di affrontare da solo tutto quanto e non riesco a voltare pagina. Continuo a pensare che sarei dovuto morire io, che lui ha lasciato una moglie e un figlio, mentre nessuno avrebbe pianto per me. Ma il destino commette errori enormi talvolta e noi non possiamo rimediare, ma soltanto adeguarci.
Un conoscente stringendomi la mano il giorno del funerale mi ha detto: “Sono sempre i migliori ad andarsene per primi”.
So che Carlo era migliore di me, ma sentirmelo dire, sapere che la gente lo pensa, non fa altro che peggiorare le cose.
Stamattina mi sono deciso finalmente a tornare in ufficio. La mia testa mi dice che c’è un sacco di lavoro che mi aspetta, ma la mente è ancora lontana da tutto questo. Sul cancello di ingresso della ditta hanno appeso uno striscione:
“Dott. Carlo Molari, persona speciale che non dimenticheremo”.
Accidenti. Quanto dura il dolore?
Dovrebbe esserci un tempo entro il quale avere la certezza che finisce, così da continuare la nostra vita di tutti i giorni. Dovremmo poter racchiudere in un sacchetto tutti i ricordi, infilarli nel freezer della nostra memoria e andare avanti.
Guardo lo striscione e nonostante tutto mi ritrovo a sorridere. Lui ci ha sempre saputo fare con la gente.
Aveva quella capacità di mettersi in ascolto di chiunque, di far sentire le persone uniche e speciali, di creare un’empatia che mi irritava profondamente. Mai una parola di impazienza, un gesto scortese.
“Guarda che siamo imprenditori non benefattori” gli dicevo ogni tanto esasperato.
Lui rideva, mi chiamava orso.
“Sorridi qualche volta, vedrai come ti sentirai meglio”.
Faccio il mio lavoro, mi piace, ma cerco di evitare contatti con i dipendenti. Non mi reputo una cattiva persona, ma non sono certo mio fratello.
Mentre rimugino su questi pensieri raggiungo il mio ufficio e mi ci infilo dentro come una salvezza. Tempo due minuti e bussano alla porta. Elisa, la mia segretaria, scelta per la sua discrezione, mi fa le condoglianze, mi aggiorna sulle urgenze e mi chiede se voglio ricevere un operaio che aveva già parlato con mio fratello ed era in attesa di una risposta.
So già di cosa si tratta.
Aveva chiesto un periodo di aspettativa, ma avevo già detto a Carlo che non ero d’accordo. Ricordo ancora la discussione che ne era seguita, perché naturalmente per lui non c’erano problemi.
Ma ora lui non c’è più e tocca a me decidere. E io decido che non voglio creare precedenti, con il rischio di trovarmi la fila di operai che chiede favori.
“Elisa, per favore dica lei a questo signore che purtroppo non possiamo accontentarlo, mi spiace.
Leggo il suo sgomento negli occhi, ma faccio finta di niente.
“Qualche problema Elisa?”
Lei arrossisce, scuote il capo e si allontana velocemente.
In qualche modo riesco a concludere la giornata, ma prima di uscire, una telefonata mi mette decisamente di cattivo umore. E’ Antonella, la moglie di Carlo. Sua madre sta poco bene e abita al sud, deve partire per l’week end e mi chiede se posso occuparmi di Giacomo mio nipote di 11 anni.
Naturalmente no, rispondo, con tutto quello che ho da fare, ma lei non si scoraggia. Mi spiega che non può portarlo con sé, che si tratta di un paio di giorni, e farà bene anche a me trascorrere un po’ di tempo insieme a lui.
Vorrei risponderle che so perfettamente cosa sia meglio per me, ma probabilmente dal cielo mio fratello sta pensando di prendermi a calci e qualcosa mi convince a tacere.
Cosi la mattina successiva quando entro in ufficio lui è già lì seduto ad aspettare.
“Ciao zio Alessio, ti stavo aspettando”.
“Ricordami perché non sei a scuola Jack”.
“E’ sabato zio, nemmeno tu dovresti essere al lavoro. La mamma mi ha detto di insistere per farti uscire da qui”.
“E dove vorresti andare?”
“Al centro commerciale per esempio”.
La tentazione di chiamare Elisa e affidarlo a lei, è fortissima, ma dura solo un istante. Il tempo di guardarlo in quegli occhi che erano di suo padre, e domandarmi quali pensieri gli saranno passati per la testa in queste ultime settimane, e non ho più dubbi.
Che centro commerciale sia.
Peccato che nessuno mi aveva mai detto che trascorrere un’intera giornata con un bambino di 11 anni, è come salire su una giostra e non avere la possibilità di scendere fino alla fine. La sera, dopo videogiochi, pranzo da Mc Donald, interminabili giri dentro e fuori negozi di ogni genere, io ero a pezzi.
“Cosa ne pensi se domani andiamo a Leolandia zio?” mi domanda la sera prima di addormentarsi.
Penso che non sono certo di sopravvivere, ma ho fatto di peggio, quindi si può fare.
L’ultimo pensiero, per la prima volta dopo giorni, non è mio fratello, ma mio nipote e il sonno arriva finalmente senza fatica.
Dopo questo week end, Giacomo si ferma spesso nel mio ufficio a fare i compiti e io lo lascio fare, apprezzo la sua compagnia, la solitudine fa meno male. Un pomeriggio, mi chiede di fare il giro dello stabilimento e io lo accontento volentieri.
Mentre percorriamo il tragitto, lo vedo salutare un operaio.
“Lo conosci?” domando.
“E’ il papà della mia compagna di scuola Laura. Qualche volta andavo a giocare a casa sua, ma la sua mamma si è ammalata e ora non vado più.”
“Mi spiace”, rispondo un po’ evasivo “Cos’ha?”
“E’ una parola difficile, non la tengo a mente, però so che ha bisogno di assistenza continua. Ci sono delle signore che danno una mano, ma ci vorrebbe una persona fissa, ma lei dice che costa troppo e lo stipendio non basta”.
Qualcosa nelle parole di Giacomo mi costringe a guardare di nuovo l’operaio.
Ho un tuffo al cuore.
E’ lo stesso che mi aveva chiesto l’aspettativa. Ecco a cosa gli serviva. A prendersi cura di sua moglie.
“Zio, zio, posso prendere una merendina dalla macchinetta. Mi ascolti?”.
Si, si certo, rispondo vagamente.
In realtà i miei pensieri sono ben altri. Guardo Giacomo e mi vergogno profondamente.
Ma che razza di persona sono?
Cosa può insegnare uno come me a un bambino che aveva un papà perfetto? Perché lui capiva sempre i bisogni degli altri mentre io ho un cuore di pietra?
“Zio, posso dirti una cosa?”
Si, Jack, puoi dirmi qualunque cosa, anche se non sono capace di ascoltarla.
“Papà aveva ragione, quando parlava di te con al mamma”.
Il respiro si fa corto.
“A proposito di cosa Jack?”
“La mamma diceva che non vi somigliate affatto, che papà era migliore di te. Ma papà diceva che la strada per diventare persone migliori per fortuna non finisce mai, che facciamo sempre in tempo a incamminarci, e che di sicuro anche tu saresti diventato una persona di cuore. Diceva proprio così, persona di cuore. E lo sai zio, secondo me ci stai riuscendo”.
Giacomo non sa che devo percorrerne ancora tanta di strada per diventare persona di cuore, ma posso sempre provarci, altroché se posso.
che bel racconto.. e quanta tenerezza che suscita nei nostri cuori. ❤
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🙂 🙂
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