pubblicata su Confidenze n. 7 Febbraio 2021
Guardo fuori dalla finestra dell’ospedale e vedo l’inverno arrivare.
Mi chiamo Fabiana e questo è il terzo inverno per me qui a Dublino. Ricordo la prima impressione che mi ha fatto quando sono arrivata: non era certo la città che mi aspettavo, molto piccola rispetto ad altre metropoli, ma con una concentrazione di problemi da far paura: alcolismo, abuso di sostanze stupefacenti, depressione.
Avevo 25 anni e per me che arrivavo da un piccolo paese della Brianza, nata e cresciuta in una famiglia di solidi principi dove al primo posto ci sono sempre stati valori importanti come amore, fede, e senso del dovere, è stata dura affrontare questa realtà.
Ma non potevo più rimanere a casa, sono un’ostetrica e in Italia trovare lavoro per me era diventato troppo difficile.
All’inizio mi sono accontentata di fare la baby sitter, davo ripetizioni, insomma qualunque cosa pur di non gravare economicamente sulla famiglia, ma tutto mi stava stretto, e poi volevo svolgere la mia professione, quella che avevo scelto e per la quale avevo studiato con impegno e sacrificio. Se ripenso alle motivazioni che mi avevano spinto a scegliere questa facoltà, mi viene da sorridere.
19 anni sono davvero pochi per capire cosa ne vuoi fare della tua vita, mi ero iscritta a ostetricia più per curiosità che per convinzione, era un percorso che mi affascinava. Poi però con il tempo, dopo un lento innamoramento, è diventato un grande amore. Soprattutto grazie al tirocinio universitario ho veramente capito che assistere una coppia nel momento più bello della loro vita mi rendeva davvero felice.
Quell’istante in cui un piccolo essere umano viene alla luce, il mondo intero si ferma per una frazione di secondo: la memoria cancella le ore di travaglio, di dolore e di fatica, quasi spinta da un istinto di conservazione per lasciare posto soltanto a quell’attimo perfetto in cui si prende consapevolezza di quanto sia davvero miracolosa una nascita. Un’emozione che si rinnova ogni volta e non si dimentica più. Insomma io non vedevo l’ora di cominciare.
Purtroppo però la vita non è sempre pronta a soddisfare i tuoi desideri e le tue aspirazioni, io vedevo i giorni trascorrere tutti uguali e sentivo dentro una grande frustrazione e un profondo senso di ingiustizia.
E’ stato in quel periodo che ho trovato un’offerta di lavoro tramite EURES, una rete di servizi coordinata dalla Commissione Europea, che ha lo scopo di supportare le persone in cerca di occupazione, soprattutto i giovani.
Ho trovato questa opportunità in Irlanda e siccome non mi dispiaceva il pensiero di fare un’esperienza all’estero, mi sono candidata e dopo aver sostenuto un colloquio, mi hanno assunta.
All’inizio ero entusiasta, lavoro in uno dei tre ospedali materno infantili più grande d’Irlanda: il “Coombe Women & Infants Hospital” che registra circa 8000 nascite l’anno e non avevo nemmeno il tempo di pensare troppo agli affetti che avevo lasciato in Italia. Durante i primi due anni ho lavorato in Pronto Soccorso dove mi sono occupata principalmente di emergenze ostetriche del primo trimestre, e da un anno circa seguo le gravidanze ad alto rischio e i travagli di parto.
Ho perso il conto delle donne che ho incontrato, ma ognuna di loro ha lasciato una traccia nel mio cuore.
Ricordo che avevo iniziato a lavorare da sei mesi ed ero in pronto soccorso quando è arrivata una coppia, entrambi giovanissimi, lei stava piangendo. Avevano un appuntamento nell’ambulatorio della gravidanza a basso rischio, ma erano molto preoccupati perché gli era stato detto che il loro bambino era troppo piccolo per l’epoca gestazionale, perciò volevano fare un controllo più accurato.
Quando ho sottoposto la cartella clinica a uno dei medici tirocinanti, senza leggerla accuratamente, mi aveva risposto che la paziente era stata già vista e doveva andare a casa. Per niente soddisfatta ho preso la cartella e sono andata nella sala visite del medico più anziano e dopo aver spiegato la situazione, l’avevo convinto a visitare la ragazza. Due giorni dopo una mia collega mi aveva chiamata dicendomi che c’era una persona che mi cercava. Il compagno della ragazza era venuto a cercarmi perché durante la visita il medico aveva scoperto che la donna aveva rotto le membrane, ed essendo il bambino prematuro era stata trasferita in reparto e aveva partorito quella stessa notte. Conservo ancora con grande affetto il bellissimo biglietto che mi avevano scritto ringraziandomi per il sostegno ricevuto e dicendomi che sono davvero una bravissima ostetrica.
Qui ho conosciuto persone accoglienti e gentili e ho creato una nuova famiglia con le mie colleghe italiane, siamo diventate come sorelle e ci sosteniamo nei momenti di sconforto.
Non so come avrei fatto senza di loro soprattutto durante il lockdown, che non nascondo, da quando sono in Irlanda, è stato davvero il periodo più difficile perché per mesi ci hanno impedito di fare ritorno a casa anche dopo la riapertura delle frontiere.
Purtroppo oltre a questo abbiamo anche subito episodi di bullismo e razzismo a causa della nostra nazionalità e dico la verità, questa cosa non me la sarei mai aspettata.
Ci accolgono come privilegiati, ci assumono a tempo indeterminato contrariamente agli irlandesi, riconoscono la nostra bravura e competenza, ma quando la situazione si è fatta difficile e le preoccupazione e la paura sono entrate di prepotenza nella vita delle persone, ci siamo sentite dire che era colpa nostra se il COVID era arrivato in Irlanda e che ce ne dovevamo andare.
Ma siamo rimaste. E io sono stata otto mesi senza poter rivedere la mia famiglia.
E’da allora che la fiducia e la stima che avevo sempre avuto verso tutto il personale ospedaliero si è incrinata e il desiderio di fare ritorno a casa è diventato pungente.
E’ difficile da spiegare, ma CASA è CASA. Nonostante qui abbia trovato quello a cui tanti giovani della mia età aspirano, un contratto a tempo indeterminato, la famiglia e gli amici mi mancano più dell’aria che respiro.
E durante giornate come queste, quando fatico a tenere a bada la malinconia, mi scappa anche qualche lacrima.
Ma dura poco perché la pausa finisce e devo tornare in Pronto Soccorso.
Due paramedici mi presentano la situazione: una donna aveva partorito prematuramente il suo bambino in un rifugio per senzatetto. Mentre il medico si prende carico della paziente, il paramedico mi porge il bambino avvolto in un lenzuolino scuotendo tristemente il capo. Io lo prendo in braccio e mi accorgo subito che pur a fatica respira. “E’ vivo!” esclamo. Lo avvolgiamo in una coperta e lo portiamo in sala parto, dove eseguiamo subito la rianimazione neonatale riuscendo a stabilizzarlo e a trasferirlo in terapia intensiva neonatale.
Alla fine del turno stanca ma soddisfatta mi trascino negli spogliatoi.
“Complimenti” sento dire dietro di me.
“Scusa?” chiedo perplessa a un collega irlandese.
“Ho detto: complimenti hai gestito veramente bene la situazione in Pronto Soccorso!”
“Ah grazie” rispondo sempre più perplessa.
“Hai finito il turno? Beviamo qualcosa insieme?”
La tentazione di rifiutare è forte, ma poi penso che finché vivrò e lavorerò qui, questa sarà casa mia e voglio fare il possibile per starci bene.
Mentre cammino al suo fianco, per le strade di questa fredda Dublino, penso alla vita che mi ha accompagnata fino a qui, al mio lavoro che amo tanto, alle amiche che ho conosciuto, ai colleghi che mi stimano, alla persona che sono diventata e sono fiera di tutto ciò, mio malgrado.
Spero sempre e spero ancora che prima poi arrivi anche per me il tempo di fare ritorno in Italia, ma sento dentro questa grande passione per il mio lavoro che non conosce confini, né razza, né colore, né lingua, è un impasto di competenza e passione che mi spinge ad andare avanti e a fare bene ogni cosa.
La mia è una professione meravigliosa che mi insegna a guardare il mondo attraverso gli occhi di chi sceglie ancora, nonostante tutto, di mettere al mondo una vita e io ho il privilegio di essere lì, in quell’attimo perfetto.