Oggi qualcuno ha pensato a me

pubblicato su Confidenze n. 50 Dicembre 2007

Non per tutti il Natale che viene porta gioia e serenità.
A qualcuno porta posti vuoti a tavola, musiche come memoria di dolore,
ricordi che spezzano il cuore.
Questa storia racconta di come la solitudine qualche volta,
può lasciare il posto alla speranza.
Accade quando spostiamo lo sguardo da noi stessi verso gli altri.


Il sacerdote continua a parlare, ma ho smesso di ascoltarlo. Mancano pochi giorni a Natale e mi è sembrato doveroso far celebrare una messa di suffragio per i miei genitori.
Li ho persi entrambi nel giro di sei mesi e mi sono trovata improvvisamente sola, a dover ricominciare daccapo.
Sono figlia unica, loro erano tutta la mia vita, mi hanno cresciuto in un nido d’amore, un po’soffocante in certi momenti, ma pur sempre un nido caldo che mi ha offerto rifugio e protezione.
Non sono mai stata di quelle che non vedevano l’ora di andarsene di casa, anzi, io ci stavo bene, sono arrivata a 40 anni senza l’esigenza di costruire una famiglia, nonostante non mi siano mancate le occasioni. Ma dopo la loro morte il vuoto assoluto si è impadronito della mia vita.

Mi sono buttata a capofitto nel lavoro, sorprendendo tutti per la mia forza d’animo, ma quando rientro a casa e la trovo vuota e silenziosa, mi assale un’angoscia che mi toglie il respiro. Certe sere mi aggiro per le camere, guardo le foto e ogni piccolo oggetto evoca ricordi lontani di momenti belli trascorsi con loro.

Fuori fa freddo, rabbrividisco e mi stringo nel cappotto. Le strade sono illuminate a giorno, le vetrine dei negozi risplendono di addobbi natalizi, Babbo Natale mi ferma per stringermi la mano.
Il primo Natale senza la mia famiglia. Vorrei chiudere gli occhi e riaprirli a Ferragosto.
Perché non è una festa facoltativa da celebrare solo se si è felici?
Sul pianerottolo mi aspetta Piera la mia vicina.
“Roberta, non funziona il riscaldamento, ho già chiamato il tecnico dovrebbe arrivare domattina”.
“Va bene Piera, grazie” rispondo rassegnata.
Chiudo la porta, ma gli spettri del passato non tardano ad arrivare.
Lo specchio dell’anticamera mi rimanda l’immagine di una donna non più giovanissima, ho il viso tirato, lo sguardo spento e sono veramente stanca.
Accendo la tele, giusto per ascoltare il suono di altre voci che spezzino questo silenzio e poi mi faccio un bagno nella speranza di riscaldarmi un po’.
Immersa nella vasca lascio correre i pensieri.
Sono sola, ecco il problema.
Pensavo di vivere per sempre accanto ai miei genitori, di vederli invecchiare e potermi prendere cura di loro e invece li ho persi in così breve tempo.
Non sono riuscita a costruirmi una famiglia, non avrò mai dei figli, come spenderò la vita che mi rimane?
Mi avvolgo nell’accappatoio e vado in cucina.
Il frigo è desolatamente vuoto e nel lavello c’è ancora la tazza sporca del mattino.
Prendo una mela avvizzita e vado in soggiorno a sedermi su quella che è stata per lungo tempo la poltrona preferita di papà.
Alla tele trasmettono solo programmi natalizi per famiglie felici.
La spengo di colpo perché ho come la sensazione di non riuscire più a respirare.
Devo mantenere il controllo, devo stare tranquilla, è soltanto una crisi d’ansia, ora mi passa.
Cerco di respirare, ma l’aria non vuole saperne di arrivare ai polmoni, cerco di prendere fiato ma sento il cuore esplodere.
“Calma Robi, calma, ora ti passa”.
Ma non passa un bel niente.
Esco sul pianerottolo incurante del fatto di essere in accappatoio e suono il campanello di Piera.
“Roberta cosa succede?”
E’ l’ultimo ricordo, poi il buio completo.

***


Apro gli occhi a fatica e mi rendo conto di non essere nel mio letto. Cerco di tirarmi su, ma la testa mi gira tremendamente.
Mi dicono che sono in ospedale, Piera ha chiamato l’ambulanza e mi hanno ricoverato in psichiatria. Dovrò fermarmi qualche giorno per fare controlli ed esami di routine e poi mi daranno una terapia per tenere a bada gli attacchi di panico.

***

Sono qui da tre giorni e mi hanno sottoposta ad un numero indefinito di esami.
Fisicamente mi sento bene, ma capisco che è la testa che non funziona. Decido di fare due passi al piano inferiore per prendere una cioccolata.
Appena raggiungo il distributore a momenti mi prende un colpo. Se non fossi sicura di sentirmi meglio penserei di avere le traveggole, perché davanti a me c’è un ragazzo vestito da clown che sta bevendo un caffè come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Si gira, mi guarda e sorridendo mi saluta.
“Ciao, cosa prendi?”
“Una cioccolata” rispondo ancora stupita. Ma che diavolo ci fa un clown in ospedale?
“Posso offrirtela?”
“Ma veramente non so nemmeno chi sei” rispondo un po’ diffidente.
“Ah scusa hai ragione, mi chiamo Paolo, sono un volontario dell’ABIO”.
“”Di che cosa scusa?”
“ABIO, associazione per il bambino in ospedale, non la conosci? E’ un’associazione che si occupa dell’accoglienza dei bambini ricoverati in ospedale. In pratica cerchiamo di far dimenticare loro la sofferenza facendoli divertire”.
Sono sconcertata. Non ero nemmeno a conoscenza del fatto che ci fossero dei volontari che si prendessero a cuore i bambini ricoverati in ospedale.
“Se non hai da fare e vuoi venire con me ti rendi conto di cosa facciamo”.
In verità un po’ mi spaventa vedere la sofferenza nei bambini, ma sono troppo curiosa e accetto di seguirlo.
Non ero mai stata in un reparto di pediatria a Natale e rimango senza parole: appena fuori dall’ascensore i volontari hanno allestito un albero stupendo, decorato interamente con materiale riciclato, vasetti dello yogurt colorati, bottigliette di plastica ritagliate nelle forme più strane, piccoli lavori fatti con la pasta di sale.
“Ti piace? L’abbiamo preparato con l’aiuto dei bambini”.
“E bellissimo, non avevo mai visto niente di simile”.
“Allora ti mostro anche il presepe vieni”.
Mi conduce in una saletta piena di tavolini e sedie colorate, un enorme tappeto pieno di cuscini nel centro, e tantissimi giochi da tavolo, bambole, e costruzioni.
Il presepe mi lascia senza parole: Gesù Bambino, Maria, Giuseppe, i pastori, sono tutte bambole che indossano il costume tradizionale.
“Ogni bambino ha portato da casa una bambola e l’ha offerta in dono per allestire il presepe, poi le volontarie hanno cucito i vestiti” mi spiega Paolo “non male vero?”
“Io ho portato Maria, che in realtà si chiama Beverly, ma tu chi sei?”
La vocina che ha parlato appartiene ad una bimba cha avrà al massimo 5 o 6 anni, minuta, con lunghe trecce bionde e due occhi incredibilmente scuri.
Istintivamente mi chino per risponderle.
“Io mi chiamo Roberta e tu?”
“Io sono Elisabetta ho 5 anni e sono malata”.
“Piacere di conoscerti Elisabetta, anche io sono malata sai?”
“Si l’avevo capito perché indossi la vestaglia, hai la febbre?”
“No, non ho febbre, solo un gran mal di testa”.
“Ah, io invece ho sempre la febbre e i dottori non capiscono come mai”.
Mi alzo e guardo Paolo.
“Ehi Eli, perché non vai a prendere un puzzle? Io credo che Roberta ti aiuterebbe volentieri a farlo”.
“Davvero?” chiede fiduciosa.
“Certamente”.
“Sei stata brava” mi dice Paolo
“A fare cosa? “ domando stupita
“Hai fatto una cosa importante che non tutti gli adulti  fanno quando sono alle prese con un bambino”.
“Ah sì? E quale sarebbe?” domando incuriosita vista la mia totale inesperienza in fatto di bambini.
“Ti sei chinata per parlare con lei, anziché stare in piedi e guardarla dall’alto al basso”.
“Sinceramente l’ho fatto senza neppure pensarci”.
“Appunto, vuol dire che ti è venuto dal cuore”.
Elisabetta ci interrompe e trascorro il pomeriggio a fare il puzzle con lei.
Poi quando ho finito arriva Marco con un bidoncino di costruzioni e mi chiede di aiutarlo a costruire un astronave. Quando giunge il momento di fare ritorno alla mia camera, sento tirare la mia vestaglia, mi giro e vedo un faccino smarrito con gli occhi pieni di lacrime.
“E tu chi sei?”
“Io sono Brigitta, tu puoi fare una cosa per me?”
“Se posso Brigitta molto volentieri”.
“Io vorrei scrivere una lettera a Babbo Natale per fargli sapere che quest’anno i doni me li dovrà portare qui in ospedale e non a casa”.
“Scriverò tutto quello che vorrai” rispondo carezzandola.
“A nessun bambino dovrebbe essere permesso di conoscere la sofferenza” dico sottovoce.
Paolo mi mette una mano sulla spalla.
“Lo so, all’inizio è difficile accettare certe situazioni, ma tu oggi sei stata meravigliosa con questi bambini e loro ti sono grati per questo”.
La sera nella mia camera non riesco a chiudere occhio.
Non credevo che dedicare un po’ di tempo a questi bambini mi avrebbe fatto sentire così bene.
Non avevo mai pensato di mettere la mia vita a servizio di qualcuno, né tantomeno di rendere felice altre persone che non fossero i miei genitori.
Ma sento il bisogno di liberare il mio cuore da questo enorme peso che mi toglie la gioia di vivere e intuisco in qualche modo che mi piacerebbe cominciare da qui, da questi bambini che oggi mi hanno fatto sentire così bene.
Mi addormento serena come non mi capitava da una vita.
La mattina dopo trovo un messaggio di Paolo che mi invita a trascorrere la vigilia con i bambini in pediatria.
Se penso che ho rischiato di trascorrerla nella solitudine della mia fredda casa, mi sento privilegiata da questo invito.
Appena raggiungo il reparto mi accoglie la musica di Jingle bells.
“E’ arrivato Babbo Natale” esclama un bambino correndogli incontro.
Naturalmente è Paolo con un enorme sacco in spalla. 
I bambini eccitati e felici gli corrono incontro e lui chinandosi li saluta consegnando a tutti un dono.
In un angolo vedo la piccola Brigitta incredula.
Mi avvicino adagio e le domando “Brigitta tesoro non vai a prendere il tuo regalo?”
Le mi guarda, poi mi prende la mano e mi dice: “Andiamo insieme, sono sicura che ha portato qualcosa anche per te”.
Non so perché mi torna alla mente una poesia di Gianni Rodari che avevo imparato a memoria da piccola:
“Se ci diamo la mano i miracoli si fanno
e il giorno di Natale durerà tutto l’anno.”

Mi sale un groppo in gola e soffoco le lacrime, ma stavolta sono di gioia, perché intuisco che anche per me quest’anno sarà un Natale speciale.



2 pensieri su “Oggi qualcuno ha pensato a me

  1. E’ una storia molto commovente, sopprattutto per chi ha sperimentato veramente l’esperienza della solitudine. Io ci sono arrivato in un altro modo, forse in un’altra situazione, ho reagito diversamente, ma non me ne faccio un merito. Non mi ha mai pesato la felicità altrui, festeggiavo con una cena alla vigilia con i miei, ma i pranzi di Natali in solitudine sono sempre stati sereni. Non ho mai perso la speranza, mi sento parte comunque di una comunità, aspetti fondamentali per la mia serenità.

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