ALDINA
L’antico convento di clausura sorge sopra una piccola altura in fondo al paese.
Esiste da sempre. Ricordo che fin da piccola, quando uscivo la sera con le amiche per una passeggiata, la meta era sempre la medesima.
“Ma’, arriviamo al convento e poi torniamo”.
Eravamo in quattro: Aldina, Santina, Elisabetta e Mariapia.
Quanti sogni abbiamo condiviso lungo quelle camminate, avevamo 15 anni e il cuore pieno zeppo di speranza.
“Ma voi lo volete un marito raga’? Io c’ho un po’ paura se ci penso” diceva Santina la più fifona, lei aveva paura di tutto perché era cresciuta con un papà che alzava sempre la voce e ogni volta il cuore pareva esploderle nel petto dalla paura.
“E dove vuoi finire sennò Santì? Io me lo sogno di notte il matrimonio con l’abito bianco.” rispondeva Mariapia la sfrontata, che non vedeva l’ora di andarsene di casa perché aveva cinque fratelli maschi tutti da servire e non gliela faceva più.
Io stavo zitta, la testa mi pesava talmente traboccava di pensieri che non volevo rivelare, pensieri che tenevo per me, perché erano segreti.
Ce l’ho sempre avuta un po’ la fissa dei segreti, perché siccome non mi è mai appartenuto niente, almeno i pensieri dicevo, nessuno me li può portar via.
Gli ultimi cinque metri prima di arrivare al cancello, partiva la corsa.
“L’ultima che arriva finisce dentro a fare la suora” gridava Elisabetta e prima ancora di aver finito la frase si metteva a correre guadagnando terreno per il terrore di finirci davvero dentro il convento. Lei non ci pensava né a farsi suora né a prender marito.
“Se riesco a scappare da questo schifo di paese non mi vedete più, vado in America a fare fortuna”.
Nessuna di noi ha mai oltrepassato il cancello, fino ad oggi.
Cammino adagio, la gonna troppo stretta mi impedisce di accelerare il passo, ma va bene così, attaccata al braccio di mia madre, non potrei certo mettermi a correre come facevo un tempo.
Guardo avanti, l’edificio severo e imponente si fa sempre più vicino.
Mi percorre un brivido e senza pensarci mi stringo nel golfino azzurro troppo leggero per la stagione che è.
Poi sento il suo sospiro, lento e profondo, esalato quasi a volersi liberare di un peso che non riesce più a sostenere.
La osservo un breve istante, prima che si accorga che la sto guardando e mi rendo conto di quanto sia invecchiata.
La sua andatura stanca parla per lei, parlano i suoi abiti scuri, le sue scarpe sdrucite “che finché riuscirò a camminare non le butterò”, e i suoi capelli diventati candidi troppo in fretta per la sua giovane età.
Mi guarda e abbozza un sorriso.
“Stai bene ma’?” domando preoccupata.
“Finché il Signore lo vorrà Aldina”.
Sempre la stessa risposta, ma stavolta sono stanca di fare domande, di prendermi cura di lei che non si vuol curare e che vive prigioniera del suo destino.
Sono stanca di sostenere con un orgoglio che non possiedo, gli sguardi compassionevoli della gente che mi chiama “la figlia di Maria zitella”.
Lo sanno tutti qui in paese che un padre io non ce l’ho mai avuto, anzi non è mai esistito.
C’è stato solo un uomo che si è approfittato di mia madre tanti anni fa, si è preso la sua giovinezza, e poi se ne è andato, lasciando il suo seme a germogliare nel suo ventre.
Poi sono nata io, che ho giurato che mai e poi mai un uomo mi avrebbe sfiorata anche solo con un dito.
Perché guardavo mia madre e mi dicevo:”Dunque questo succede quando un uomo ti prende? Perdi la voglia di vivere, la dignità, la stima di tutto il paese”.
Non l’hanno mai perdonata mia mamma, perché non si è perdonata lei per prima e a me sta cosa mi ha sempre messo una gran rabbia in corpo.
“Ma’ tu non hai fatto niente di male, lo vuoi capire o no?”
“Aldina, la gente è cattiva, non te lo dimenticare. Sembra che dimentica ma ha la memoria lunga e io sono stanca di sentirmi in colpa”.
Per questo sono qui, che cammino adagio verso il convento.
Voglio un rifugio dove vivere in pace per il resto dei miei giorni.
La soglia di quel cancello alla fine l’ho varcata.
Mi è venuta incontro una suora, mi ha preso la borsa leggera che conteneva ciabatte e pigiama e giusto due pezzi di biancheria buona, ha guardato mia madre e mi ha detto:” Salutala qui che non so quando la potrai rivedere”.
In realtà ci eravamo già salutate e non volevo vedere le sue lacrime.
“Va bene così “ ho risposto e l’ho preceduta.
Il viale che mi ha portato sino all’ingresso era costeggiato di calicantus in fiore, non l’ho più dimenticato quel profumo dolce e nauseante che faceva promesse che non poteva mantenere.
Ho varcato il pesante portone, e quando si è chiuso dietro si me, ho chiuso gli occhi ma solo per poco, perché alla fine, ero pure contenta di stare lì, di cominciare una vita nuova, qualunque vita fosse.
Mi sono perso nelle immagini che hai saputo creare 💜
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Grazie!
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