I colpi al portone mi hanno svegliata all’improvviso.
C’è un tale silenzio dentro il convento, che qualunque rumore anche se molto distante dalle camere, si sente forte e chiaro.
“Che diamine sta succedendo?” mi sono chiesta nel tentativo di infilarmi le pantofole e gettarmi addosso la vestaglia di flanella, mentre un vago senso di vertigine mi coglieva all’improvviso.
Ho aperto la porta della camera e in corridoio ho visto passare di fretta la Madre Superiora seguita da suor Angelica, l’unica incaricata al colloquio con gli estranei.
“Che succede Reverenda Madre?” ho chiesto preoccupata.
Mi ha risposto senza fermarsi, la voce bassa e roca di chi è stato svegliato nel cuore della notte, il velo calcato in testa in qualche modo.
“Ancora non lo sappiamo suor Aldina, ma qualcuno sta chiedendo aiuto ed è nostro dovere aprire il portone. Rientra nella tua camera per favore e non uscire più.”
Ho lasciato che mi superassero e poi le ho seguite in silenzio pensando vagamente al nuovo peccato che avrei avuto da raccontare la prossima settimana al confessore.
Mi sono fermata dietro uno dei grandi pilastri che si trovano nell’ingresso austero e lugubre del convento e ho ascoltato.
Suor Angelica apre prima la finestrella per vedere guardinga chi sta disturbando la tranquilla notte di un convento di suore.
“Chi siete? Cosa volete?”
Una giovane voce di donna implora aiuto e pietà, continua a gridare frasi senza senso e racconta di un uomo che vuol farle del male.
Mentre un brivido inaspettato mi percorre la schiena, vedo le due suore scambiarsi uno sguardo di assenso e aprire la porta.
E poi la vedo.
Poco più alta di me, il viso di un pallore tale da illuminare l’oscurità dell’ingresso, corti capelli neri intrisi di sudore, e poi gli occhi, neri e profondi, ma soprattutto colmi di un terrore che non ho mai conosciuto.
Si toglie la borsa che tiene a tracolla e la lascia scivolare stancamente ai suoi piedi, poi accenna un fugace sorriso e farfuglia parole incomprensibili.
“Possiamo ospitarti per questa notte figliola, ma domattina dovrai andartene, noi non possiamo accettare estranei, questo è un convento di clausura”.
Il tono conciliante della Madre Superiora pare rincuorare per un istante la fanciulla.
“Io…vi ringrazio” risponde in un soffio la ragazza.
“Mi chiamo Isabella, scusate mi sento poco bene…vi prego aiutatemi”.
Poi si accascia al suolo sorretta a malapena da una suor Angelica sconvolta.
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Quando la Madre superiora mi aveva affidato l’infermeria mai avrei immaginato di trovarmi ad accudire una giovane creatura arrivata da non so quale parte del mondo.
Appena l’ho vista cadere tra le braccia di suor Angelica, non ho potuto fare a meno di uscire allo scoperto ignorando volutamente lo sguardo di rimprovero della madre Superiora e ho dato una mano a trasportarla in infermeria offrendomi di trascorrere la notte accanto a lei.
Le ho ripulito con delicatezza il labbro ferito ma quando le ho tolto gli abiti strappati e sudici, il respiro mi si è fermato in gola: quel povero corpo magro e debilitato presentava segni evidenti di maltrattamenti e percosse.
Le costole sporgevano dal torace sottolineando la magrezza di quel corpo.
Le ho infilato con delicatezza una ruvida camicia da notte in dotazione del convento, assolutamente inadatta alla pelle morbida e bianca di questa fanciulla.
Poi l’ho sistemata sotto le coperte senza smettere un solo istante di domandarmi quale potesse essere la sua storia.
E’ talmente terrorizzata che non vuole neppure essere visitata da un medico.
Durante il breve istante in cui era vigile mi ha preso la mano stringendola con una forza che non immaginavo possedesse supplicandomi di non mandarla via. Le ho promesso che avrei parlato con la Madre Superiora per convincerla a farla rimanere almeno finché non si sarebbe rimessa in forze e lei ha accennato un debole sorriso e mi ha sussurrato a bassa voce : “Grazie. Non è per me è per il mio bambino”.
Sentire quelle parole mi ha scosso l’intero corpo.
Mi sono alzata di colpo e ho raggiunto il bagno appena in tempo per vomitare quel poco che il mio stomaco era riuscito ad accogliere quella mattina.
Sono giorni che mi sento uno straccio. I primi sintomi li ho avuti un paio di settimane fa, nausea, capogiri e una stanchezza infinita.
Mi ripulisco la bocca, bevo un sorso d’acqua e quando alzo il viso e mi guardo allo specchio, l’immagine che mi torna è veramente di un pallore impressionante.
Poi ripenso a Isabella, a quanto deve aver sofferto, al suo bambino e al terrore nei suoi occhi. C’è qualcosa in quella ragazza che mi fa sentire vicina a lei, non riesco a spiegare questa sensazione, come se avessimo entrambe alle spalle un vissuto doloroso e in qualche modo il destino ci avesse avvicinate per condividerlo.
In questi ultimi mesi ho chiesto al Padreterno così tante volte di farmi capire cosa diamine si aspettasse da me che ho perso il conto e quasi quasi me lo stavo dimenticando pure io.
Ma stanotte è arrivata Isabella ed è come se dentro un puzzle di cinquemila pezzi io avessi inaspettatamente ritrovato due piccole tessere combacianti.
Mi aggiusto il velo cacciando dentro i capelli che mi rifiuto di tenere corti, e torno da lei, che ha bisogno di me e decido che non mi tirerò indietro. Non questa volta.
La aiuterò a curare le sue ferite, qualunque esse siano e smetterò di rifuggire il dolore.